Una voragine da 8,75 miliardi di euro
Incredibile, se nel 2002 fosse stato fatto il processo a Gianni Zonin chiesto dal giudice Carreri ora non avremmo un buco da 8,75 miliardi in Banca Popolare di Vicenza.
Nel 2002 Gianni Zonin aveva offerto le sue dimissioni ma furono respinte.
Articolo di Stefano Righi per Corriere Economia.
Le due ex popolari del Nordest hanno bruciato valore per oltre 15 miliardi di euro, coinvolgendo 200 mila risparmiatori. Il più grande crac bancario della storia della repubblica italiana. Il buco che si è venuto a creare nei conti della Banca Popolare di Vicenza non ha eguali nel passato. L’unico caso che si avvicina è il contemporaneo crac della vicinissima Veneto Banca: una voragine di 8,75 miliardi sotto Monte Berico (6,25 miliardi di capitalizzazione; 1,5 da Atlante, 1 di perdite a bilancio); un’altra pari a 6,5 miliardi a Montebelluna (5+1+0,5). Assieme hanno bruciato – secondo stime prudenziali – 15,25 miliardi, con il coinvolgimento di 205 mila risparmiatori. Il tutto in meno di tre anni.
In questa classifica degli orrori, lo straordinario caso Parmalat – era il 2003 – con i bilanci sistemati a suon di fotocopie false, arrivò a bruciare 6 miliardi coinvolgendo 110 mila risparmiatori. Ventimila in più che a Veneto Banca, ma per una cifra minore. Le quattro banche del centro Italia che sono state salvate nel novembre 2015, hanno bruciato 786 milioni di euro in obbligazioni a cui è stato necessario aggiungere 3,8 miliardi cash versati dal Meccanismo di risoluzione (ovvero le banche sane del sistema italiano). Il totale riconducibile a Etruria, Marche, CariChieti e CariFerrara è di 4,586 miliardi, con il coinvolgimento di 10.559 obbligazionisti, solo in minima parte ristorati. Si tratta, ha sottolineato la Banca d’Italia, «di banche di dimensione piccola o media, aventi nel complesso una quota del mercato nazionale dell’1 per cento circa in termini di depositi». È comunque evidente a tutti che anche un solo euro bruciato dal malgoverno delle aziende bancarie scotta tra le mani e va evitato, ma è anche evidente che le dimensioni contano. E non c’è nessuno che ha eguagliato i 16 e passa miliardi delle due venete. Le ventennali gestioni delle due banche riconducibili alle figure apicali di Gianni Zonin a Vicenza e di Vincenzo Consoli a Montebelluna hanno portato a un inarrivabile falò delle vanità personali e bancarie, che si è consumato in meno di tre anni, tra l’estate del 2013 e la primavera del 2016. Bisogna risalire indietro di 15 anni, al dicembre 2001, per imbattersi nel fallimento della repubblica argentina e al default dei bond emessi da Buenos Aires. Furono coinvolti 440 mila obbligazionisti italiani per complessivi 2,5 miliardi di euro investiti. Una cifra doppia rispetto all’altro crac delle obbligazioni in quegli anni, quello legato alla Cirio: 1,2 miliardi di euro e circa 35 mila risparmiatori coinvolti. Dopo anni, alcune somme sono state restituite: furono rimborsati il 67 per cento dei piccoli obbligazionisti Parmalat, il 33 per cento dei piccoli investitori in Tango bond e il 10 per cento dei piccoli obbligazionisti Cirio. Un epilogo a cui può legittimamente aspirare chi ha investito negli aumenti di capitale di Veneto e Vicenza del 2013-2014. Con molte maggiori difficoltà tutti gli altri, perché al di là delle vuote distinzioni semantiche tra «soci» e «azionisti» e tra «prezzo» e «valore» delle azioni, l’investimento nel capitale di quelle due banche era a tutti gli effetti investimento in capitale di rischio. E la dimensione del rischio era capitale. Nella classifica dei grandi crac della repubblica italiana siamo risaliti fino a 40 anni fa, ma nulla di simile è stato trovato. L’implosione del Banco di Napoli nel 1994 bruciò circa 4 mila miliardi di lire. Trasformati in euro del 2001, diventano 2,504 miliardi da dividere tra circa 14 mila risparmiatori. Una cifra monstre , per l’epoca, ma che non si avvicina a quanto si è realizzato in Veneto. Il buco più grande di tutti, ingigantito nella percezione comune dagli intrecci con le finanze vaticane e con centri di potere paralleli e contrapposti allo stato, fu quello che nel 1982 vide protagonista il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Venne distrutto valore per 1,3 miliardi di dollari dell’epoca, circa 2,427 miliardi di euro del 2001, con il coinvolgimento di circa 25 mila risparmiatori. Veneto e Vicenza sono andate molto oltre. I delitti che abbiamo richiamato si sono giocati nelle gelide stanze del potere finanziario. In Veneto si è imbrogliato sui numeri e con le parole, si è abusato della credulità popolare e si è guidato con miopia un esercito di risparmiatori verso il baratro del loro futuro. A cui ora si aggiungerà il computo delle aziende che, chiamate a rientrare dei fidi, stanno saltando come grilli.
Di Stefano Righi, da Corriere Economia, 5 dicembre 2016